Traduzione Libro VI (6 sei) De Bello Gallico
[1] Per molte ragioni Cesare si attendeva una più grave sollevazione della
Gallia, perciò decide di operare un reclutamento mediante i suoi legati M.
Silano, C. Antistio Regino e T. Sestio. Al tempo stesso, al proconsole Cn.
Pompeo, rimasto nelle vicinanze di Roma con un comando militare per il
bene dello stato, chiede di radunare e inviargli i soldati che aveva già
arruolato e fatto giurare nella Gallia cisalpina quand'era console. Al
fine di mantenere il buon concetto che i Galli avevano di noi, riteneva
estremamente importante, anche per il futuro, che vedessero quali erano le
risorse dell'Italia: i Romani, se anche subivano un rovescio in guerra,
erano in grado non solo di rimediare in poco tempo alle perdite, ma
addirittura di aumentare il numero degli effettivi. Pompeo, sia
nell'interesse pubblico, sia per ragioni di amicizia, acconsentì.
Completato con celerità l'arruolamento tramite i legati, prima della fine
dell'inverno vennero formate tre legioni e condotte in Gallia. Cesare
raddoppiò, così, il numero delle coorti rispetto a quelle perse con Q.
Titurio e, grazie alla rapidità e all'entità del reclutamento, dimostrò di
che cosa fossero capaci l'organizzazione e i mezzi di Roma.
[2] Dopo l'uccisione di Induziomaro, come abbiamo descritto, i Treveri
affidano il comando ai suoi parenti, che non desistono dal sobillare i
Germani limitrofi, promettendo denaro. Non avendo ottenuto risultato con i
Germani vicini, tentano con i più lontani. Trovate alcune genti disposte
all'azione, a esse si vincolano con giuramento solenne; quanto al denaro,
garantiscono con ostaggi. Accolgono nella loro lega e patto Ambiorige.
Informato di ciò, Cesare si accorse che, ovunque, erano in corso
preparativi di guerra: i Nervi, gli Atuatuci, i Menapi erano in armi,
uniti a tutti i Germani stanziati al di qua del Reno; i Senoni non
rispondevano alle convocazioni e si accordavano con i Carnuti e i popoli
limitrofi; i Treveri facevano pressione sui Germani con frequenti
ambascerie. Quindi, ritenne di dover pensare alla guerra più presto del
solito.
[3] Perciò, prima ancora della fine dell'inverno, radunò le quattro legioni
più vicine e, inatteso, puntò sui territori dei Nervi: non lasciò ai
nemici il tempo di accorrere o fuggire e, catturati molti capi di bestiame
e uomini, che concesse come preda ai soldati, devastò i campi e costrinse
i Nervi alla resa e alla consegna di ostaggi. Terminate con rapidità le
operazioni, ricondusse le legioni negli accampamenti invernali. Indetto,
secondo il solito, un concilio della Gallia per l'inizio della primavera,
si presentarono tutti, tranne i Senoni, i Carnuti e i Treveri. Cesare lo
considera segno dell'inizio delle ostilità e della ribellione e, per
dimostrare che metteva in secondo piano ogni altro problema, trasferisce
il concilio a Lutezia, città dei Parisi. Costoro confinavano con i Senoni
e a essi si erano uniti all'epoca dei nostri padri, ma non prendevano
parte, si riteneva, al piano di sollevazione. Comunicato dalla tribuna il
cambiamento di sede, il giorno stesso si dirige, con le legioni, verso le
terre dei Senoni, dove giunge a marce forzate.
[4] Saputo del suo arrivo, Accone, responsabile del piano, ordina alla
popolazione di rifugiarsi nelle città. Mentre il tentativo era in corso,
prima che le operazioni fossero ultimate, viene annunziato che i Romani
sono giunti. I Senoni sono costretti a rinunciare ai loro propositi e
inviano un'ambasceria a Cesare per scongiurarne il perdono: inoltrano la
supplica attraverso gli Edui, che da antico tempo li tutelavano. Dal
momento che la richiesta veniva dagli Edui, Cesare concede volentieri il
perdono e accetta le giustificazioni, ritenendo che quell'estate fosse la
stagione di una guerra imminente, e non dei processi. Esige cento ostaggi
e li affida alla custodia degli Edui. Anche i Carnuti gli inviano messi e
ostaggi, avvalendosi dell'intercessione dei Remi, di cui erano clienti:
ottengono la stessa risposta. Cesare chiude il concilio e impone alle
genti galliche di fornirgli cavalieri.
[5] Pacificata questa zona della Gallia, Cesare impegna mente e animo,
totalmente, nella guerra contro i Treveri e Ambiorige. Ordina a Cavarino
di assumere il comando della cavalleria dei Senoni e di seguirlo, per
evitare sedizioni dovute al carattere iracondo del Gallo oppure all'odio
che costui si era meritato da parte della sua gente. Prese tali decisioni,
Cesare, sapendo per certo che Ambiorige non si sarebbe misurato in uno
scontro aperto, cercava di scoprire quali altre soluzioni rimanessero
all'avversario. Con gli Eburoni confinavano i Menapi, protetti da
sterminate paludi e selve, l'unico popolo della Gallia a non aver mai
inviato messi a Cesare per trattare la pace. Cesare conosceva i vincoli di
ospitalità tra Ambiorige e i Menapi ed era pure al corrente che, tramite i
Treveri, il Gallo aveva stretto rapporti d'alleanza con i Germani. Stimava
necessario sottrargli ogni appoggio, piuttosto che provocarlo a battaglia:
non voleva che Ambiorige, sentendosi perduto, fosse costretto a rifugiarsi
nelle terre dei Menapi o a unirsi ai Germani d'oltre Reno. Con questa
intenzione invia a Labieno, nel paese dei Treveri, tutte le salmerie
dell'esercito e dà ordine a due legioni di raggiungerlo. Dal canto suo,
con cinque legioni senza bagagli marcia sui Menapi. Costoro, senza neppure
radunare truppe, confidando nelle sole difese naturali del luogo, si
rifugiano nelle selve e nelle paludi, ammassandovi tutti i loro beni.
[6] Cesare divide le truppe con il legato C. Fabio e il questore M. Crasso,
costruisce con rapidità ponti sulle paludi e avanza su tre fronti:
incendia gli edifici isolati e i villaggi, cattura un gran numero di capi
di bestiame e di uomini. I Menapi, nella morsa della necessità, gli
inviano ambasciatori per chiedere pace. Cesare riceve gli ostaggi e
dichiara che, se avessero accolto nei loro territori Ambiorige o suoi
emissari, li avrebbe considerati nemici. Sistemata la questione, lascia
tra i Menapi, a sorvegliare la regione, l'atrebate Commio con la
cavalleria e punta contro i Treveri.
[7] Mentre Cesare conduceva tali operazioni, i Treveri, raccolte ingenti forze
di fanteria e cavalleria, preparavano l'attacco a Labieno e alla legione
che aveva svernato nei loro territori. Non distavano, ormai, più di due
giorni di cammino da Labieno, quando vengono a sapere dell'arrivo di due
legioni, inviate da Cesare. Pongono il campo a quindici miglia dai nostri
e decidono di aspettare i rinforzi dei Germani. Labieno, conosciute le
intenzioni dei nemici, spera che la loro imprudenza gli offra l'occasione
per uno scontro: lasciate cinque coorti a presidio delle salmerie, con
venticinque coorti e una forte cavalleria si dirige contro il nemico. Alla
distanza di un miglio dai Treveri fortifica il campo. Tra Labieno e il
nemico scorreva un fiume difficile da guadare, che aveva le rive scoscese.
Né lui aveva intenzione di attraversarlo, né pensava che lo avrebbero
fatto i nemici, tra i quali ogni giorno cresceva la speranza dei rinforzi.
Al consiglio di guerra Labieno rende noto apertamente che, essendo i
Germani in arrivo, a quanto si diceva, non intendeva esporre a rischi se
stesso, né l'esercito; perciò, il giorno seguente, all'alba, avrebbe tolto
il campo. Ben presto la notizia viene riportata ai nemici: dei molti
cavalieri galli, alcuni erano spinti - com'è naturale - a favorire la
causa del loro paese. Labieno, convocati di notte i tribuni militari e i
centurioni più alti in grado, espone il suo piano e, per dare con più
facilità al nemico l'impressione di panico tra i nostri, ordina di levare
il campo con uno strepito e tumulto insoliti per l'esercito del popolo
romano. Così, rende la partenza simile a una fuga. Vicini com'erano i due
accampamenti, prima dell'alba i nemici vengono informati anche di ciò dai
loro esploratori.
[8] La retroguardia era appena uscita dalle fortificazioni, che i Galli si
spronano a vicenda a non lasciarsi sfuggire dalle mani la preda sperata:
sarebbe stato troppo lungo, con i Romani atterriti, aspettare i rinforzi
dei Germani; per la loro dignità era inammissibile, numerosi com'erano,
non osare l'attacco a un reparto nemico così esiguo e, oltretutto, in fuga
e carico di bagagli. Così, non esitano a varcare il fiume e a venire a
battaglia in posizione di svantaggio. Labieno, avendo previsto ogni mossa,
allo scopo di attirare tutti i nemici al di qua del fiume continuava nella
sua finzione e proseguiva la marcia, lentamente. Poi, inviate le salmerie
un po' più avanti e avendole disposte su di un rialzo, disse: "Soldati,
avete l'occasione che vi auguravate: tenete in pugno il nemico, in un
luogo malagevole e per loro svantaggioso; date prova, adesso, sotto la
nostra guida, dello stesso valore che più di una volta avete dimostrato al
comandante in capo, fate conto che lui sia qui e che assista allo scontro
di persona". Contemporaneamente ordina di volgere le insegne contro il
nemico e di formare la linea di battaglia, invia pochi squadroni a
presidio delle salmerie e dispone il resto della cavalleria sulle ali. I
nostri rapidamente, tra alte grida, scagliano i giavellotti sui nemici.
Costoro, quando contro ogni aspettativa videro i Romani volgere le insegne
e avanzare, mentre li credevano già in fuga, non riuscirono neanche a
sostenerne l'urto: al primo assalto batterono in ritirata e cercarono
rifugio nelle selve più vicine. Labieno li inseguì con la cavalleria, ne
uccise molti e ne fece prigionieri parecchi: pochi giorni dopo i Treveri
si arresero. Infatti, i Germani, che venivano in loro aiuto, avuta notizia
della fuga dei Treveri, rientrarono in patria. Al loro seguito lasciarono
il paese i parenti di Induziomaro, che avevano istigato alla defezione. A
Cingetorige, rimasto fedele fin dall'inizio, come abbiamo ricordato, fu
conferito il principato e il comando.
[9] Cesare, appena giunto dalle terre dei Menapi nella regione dei Treveri,
decise di varcare il Reno per due motivi: primo, i Germani avevano mandato
aiuti ai Treveri contro di lui; secondo, non voleva che Ambiorige trovasse
rifugio presso di loro. Presa tale decisione, comincia a costruire un
ponte poco più a nord del luogo in cui, in passato, l'esercito aveva
varcato il fiume. Essendo la maniera di fabbricarlo già nota e
sperimentata, l'opera viene realizzata in pochi giorni grazie al grande
impegno dei soldati. A un capo del ponte, nelle terre dei Treveri, per
impedirne un'improvvisa sollevazione, lascia un saldo presidio e guida,
sull'altra riva, il resto delle truppe e la cavalleria. Gli Ubi, che in
precedenza avevano consegnato ostaggi e si erano sottomessi, inviano a
Cesare un'ambasceria per discolparsi: non avevano inviato rinforzi ai
Treveri, né violato i patti. Gli chiedono, lo scongiurano di risparmiarli,
di non accomunarli ai Germani nel suo odio, perché non volevano,
innocenti, pagare per chi innocente non era; se chiedeva altri ostaggi,
erano pronti a consegnarli. Cesare, fatta luce sull'accaduto, scopre che i
rinforzi erano stati inviati dagli Svevi. Accetta le spiegazioni degli
Ubi, si informa in modo dettagliato sulle vie d'accesso alle terre degli
Svevi.
[10] Intanto, pochi giorni dopo, gli Ubi lo avvertono che gli Svevi stavano
concentrando tutte le truppe in un solo luogo e che imponevano ai popoli
sottomessi l'invio di rinforzi di fanteria e cavalleria. Saputo ciò,
Cesare provvede alle scorte di grano, sceglie un luogo adatto
all'accampamento e ordina agli Ubi di portar via i capi di bestiame e di
ammassare ogni bene dalle campagne nelle città. Sperava che i nemici,
barbari e inesperti com'erano, si lasciassero indurre ad accettare lo
scontro anche in posizione di svantaggio, costretti a ciò dalla mancanza
di viveri. Incarica gli Ubi di inviare molti esploratori nelle zone degli
Svevi per spiarne le mosse. Gli Ubi eseguono gli ordini e, pochi giorni
dopo, riferiscono: tutti gli Svevi, avute notizie più sicure sull'esercito
dei Romani, si erano ritirati lontano, nei loro territori più remoti, con
tutte le truppe e i contingenti alleati da essi raccolti; lì si trovava
una foresta sterminata, di nome Bacenis, che si estendeva profonda verso
l'interno e formava una sorta di barriera naturale tra i Cherusci e gli
Svevi, impedendo agli uni e agli altri violenze e incursioni: sul limitare
della foresta gli Svevi avevano deciso di attendere l'arrivo dei Romani.
[11] Giunti a questo punto, non ci sembra fuori luogo esporre i costumi della
Gallia e della Germania e le differenze tra le due nazioni. In Gallia non
solo tutti i popoli, le tribù e i gruppi, ma addirittura quasi tutte le
famiglie sono divise in fazioni. A capo di esse sta chi, secondo
l'opinione dei Galli, è considerato più autorevole, ed egli è arbitro e
giudice in tutti gli affari e le deliberazioni. A quanto pare,
l'istituzione risaliva a tempi antichi, al fine di garantire alla gente
del popolo sostegno contro i più potenti. Infatti, il capo di ogni fazione
non permette che la sua gente subisca violenze o raggiri; in caso
contrario, tra i suoi perde ogni autorità. Lo stesso sistema regola ogni
aspetto della vita in Gallia, tant'è vero che tutti i popoli sono divisi
in due fazioni.
[12] Al momento dell'arrivo di Cesare in Gallia, una fazione faceva capo agli
Edui, l'altra ai Sequani. Quest'ultimi, di per sé meno influenti - fin dai
tempi antichi la massima autorità era nelle mani degli Edui, che avevano
molti clienti - si erano uniti ai Germani e ad Ariovisto, attirandoli con
grandi elargizioni e promesse. Riportati diversi successi in battaglia ed
eliminati tutti i nobili edui, i Sequani avevano superato in potenza gli
Edui stessi, al punto da sottrarre loro la maggior parte dei popoli
soggetti, da costringerli a dare in ostaggio i figli dei capi e a giurare
pubblicamente di non intraprendere nulla contro di loro; inoltre, si erano
impadroniti, con le armi, di una parte del territorio eduo contiguo al
loro e avevano ottenuto la supremazia su tutta la Gallia. Diviziaco,
spinto dalla necessità, si era recato a Roma, dal senato, per chiedere
aiuto, ma era ritornato con un nulla di fatto. L'arrivo di Cesare aveva
prodotto un vero e proprio capovolgimento: gli Edui si erano visti rendere
gli ostaggi, avevano recuperato i vecchi clienti, ne avevano acquisito di
nuovi, grazie a Cesare, perché i popoli che si ponevano sotto la loro
tutela si accorgevano di ricevere un trattamento migliore e di sottostare
a un dominio più equo. Quanto al resto, il prestigio e la dignità degli
Edui erano cresciuti, i Sequani avevano perso l'egemonia. Al loro posto
erano subentrati i Remi. Il favore di Cesare per gli Edui e i Remi era
identico, lo si capiva, perciò i popoli che, per antiche inimicizie, non
potevano assolutamente legarsi ai primi, si facevano clienti dei secondi,
che li proteggevano con ogni cura, mantenendo, in tal modo, un prestigio
nuovo e assunto di colpo. Quindi, al momento, la situazione era la
seguente: gli Edui erano considerati i primi in assoluto, i Remi
occupavano, in dignità, il secondo posto.
[13] In tutta la Gallia ci sono due classi di persone tenute in un certo conto
e riguardo. La gente del popolo, infatti, è considerata quasi alla stregua
dei servi, non prende iniziative e non viene ammessa alle assemblee. I
più, oberati dai debiti, dai tributi gravosi o dai soprusi dei potenti, si
mettono al servizio dei nobili, che su di essi godono degli stessi diritti
che hanno i padroni sugli schiavi. Delle due classi, dunque, la prima
comprende i druidi, l'altra i cavalieri. I druidi si occupano delle
cerimonie religiose, provvedono ai sacrifici pubblici e privati, regolano
le pratiche del culto. Moltissimi giovani accorrono a istruirsi dai
druidi, che tra i Galli godono di grande onore. Infatti, risolvono quasi
tutte le controversie pubbliche e private e, se è stato commesso un reato,
se c'è stato un omicidio, oppure se sorgono problemi d'eredità o di
confine, sono sempre loro a giudicare, fissando risarcimenti e pene. Se
qualcuno - si tratti di un privato cittadino o di un popolo - non si
attiene alle loro decisioni, gli interdicono i sacrifici. È la pena più
grave tra i Galli. Chi ne è stato colpito, viene considerato un empio, un
criminale: tutti si scostano alla sua vista, lo evitano e non gli
rivolgono la parola, per non contrarre qualche sciagura dal suo contatto;
non è ammesso a chiedere giustizia, né può essere partecipe di qualche
carica. Tutti i druidi hanno un unico capo, che gode della massima
autorità. Alla sua morte, ne prende il posto chi preceda gli altri druidi
in prestigio, oppure, se sono in parecchi ad avere uguali meriti, la
scelta è lasciata ai voti dei druidi, ma talvolta si contendono la carica
addirittura con le armi. In un determinato periodo dell'anno si radunano
in un luogo consacrato, nella regione dei Carnuti, ritenuta al centro di
tutta la Gallia. Chi ha delle controversie, da ogni regione qui si reca e
si attiene alla decisione e al verdetto dei druidi. Si crede che la loro
dottrina sia nata in Britannia e che, da lì, sia passata in Gallia: ancor
oggi, chi intende approfondirla, in genere si reca sull'isola per
istruirsi.
[14] I druidi, di solito, non prendono parte alle guerre e non pagano tributi
come gli altri, sono esentati dal servizio militare e dispensati da ogni
altro onere. Con la prospettiva di così grandi privilegi, molti giovani si
accostano spontaneamente a questa dottrina, molti altri vengono inviati
dai loro genitori e parenti ad apprenderla. Presso i druidi, a quanto si
dice, imparano a memoria un gran numero di versi. E alcuni proseguono gli
studi per oltre vent'anni. Non ritengono lecito affidare i loro
insegnamenti alla scrittura, mentre per quasi tutto il resto, per gli
affari pubblici e privati, usano l'alfabeto greco. A mio parere, hanno
stabilito così per due motivi: non vogliono che la loro dottrina venga
divulgata tra il popolo, e neppure che i discepoli, fidando nella
scrittura, esercitino la memoria con più scarso impegno, come accade quasi
a tutti, che, valendosi dello scritto, si applicano meno nello studio e
trascurano la memoria. Il loro principale insegnamento riguarda
l'immortalità dell'anima, che dopo la morte - sostengono - passa da un
corpo ad un altro. Lo ritengono un grandissimo incentivo al coraggio,
poiché viene eliminata la paura di morire. Inoltre, sulle stelle e il loro
moto, sulla dimensione del cielo e della terra, sulla natura, sulla
potenza e la potestà degli dèi immortali discutono molto e tramandano
questo patrimonio ai giovani.
[15] L'altra è la classe dei cavalieri. Quando ce n'è bisogno scoppia qualche
guerra (prima dell'arrivo di Cesare quasi ogni anno se ne verificavano,
sia che fossero i Galli ad attaccare, sia che dovessero difendersi), i
cavalieri partecipano al completo alle operazioni militari. Quanto più uno
è influente per nascita e mezzi, tanto più si circonda di ambacti e di
clienti: è l'unica forma di prestigio e di potere che conoscano.
[16] Il popolo dei Galli, nel suo complesso, è oltremodo religioso. Per tale
motivo, chi è afflitto da malattie di una certa gravità e chi rischia la
vita in battaglia o è esposto ai pericoli, immola o fa voto di immolare
vittime umane e si vale dei druidi come ministri dei sacrifici. Ritengono,
infatti, che gli dèi immortali non possano venir placati, se non si offre
la vita di un uomo in cambio della vita di un altro uomo. Celebrano anche
istituzionalmente sacrifici di tal genere. Alcuni popoli hanno figure
umane di enormi dimensioni, di vimini intrecciati, che vengono riempite di
uomini ancor vivi: si appicca il fuoco e le persone prigioniere lì dentro,
avvolte dalle fiamme, muoiono. Credono che agli dèi immortali sia più
gradito, tra tutti, il supplizio di chi è stato sorpreso a commettere
furti, ladrocini o altri delitti, ma quando mancano vittime di questo
tipo, si risolvono anche a suppliziare chi è innocente.
[17] Il dio più venerato è Mercurio: ne hanno moltissimi simulacri. Lo
ritengono inventore di tutte le arti, guida delle vie e dei viaggi,
credono che, più di ogni altro, abbia il potere di favorire i guadagni e i
commerci. Dopo di lui adorano Apollo, Marte, Giove e Minerva. Su tutti
questi dèi la pensano, all'incirca, come le altre genti: Apollo guarisce
le malattie, Minerva insegna i principi dei lavori manuali, Giove è il re
degli dèi, Marte governa le guerre. A quest'ultimo, in genere, quando
decidono di combattere, offrono in voto il bottino di guerra: in caso di
vittoria, immolano gli animali catturati e ammassano il resto in un unico
luogo. Nei territori di molti popoli è possibile vedere, in zone
consacrate, tumuli costruiti con tali spoglie. E ben di rado accade che
uno, sfidando il voto religioso, osi nascondere a casa sua il bottino o
sottrarre qualcosa dai tumuli: per una colpa del genere è prevista una
morte terribile tra le torture.
[18] I Galli affermano di discendere tutti dal padre Dite e dicono che siano i
druidi a tramandarlo. Per tale motivo calcolano il tempo non sulla base
dei giorni, ma delle notti. E anche i compleanni e i primi giorni del mese
e dell'anno li osservano a partire dalla notte fino al giorno successivo.
Per quanto riguarda gli altri usi quotidiani differiscono dai rimanenti
popoli quasi solo per il seguente aspetto: non permettono che i figli li
avvicinino davanti a tutti, se non quando, cresciuti, sono ormai in grado
di prestare servizio militare, e considerano una vergogna che un figlio,
in giovane età, si presenti davanti al padre in pubblico.
[19] Gli uomini, fatta la stima della dote portata dalle mogli, mettono in
comune, dal loro patrimonio, l'equivalente dei beni ricevuti. Si fa un
computo unico della somma e se ne conservano gli interessi: chi dei due
sopravvive all'altro, entra in possesso dei beni di entrambi con i frutti
degli anni precedenti. Gli uomini hanno diritto di vita e di morte sulle
mogli come sui figli. Quando muore un capofamiglia di un certo riguardo, i
parenti si riuniscono e, se nasce qualche sospetto sulla sua morte,
interrogano le mogli come si fa con i servi: se risultano colpevoli, le
uccidono dopo averle torturate col fuoco e supplizi d'ogni sorta. I
funerali sono, in rapporto alla civiltà dei Galli, magnifici e sontuosi;
depongono sulla pira ogni cosa cara in vita al defunto, anche gli animali.
E fino a poco tempo fa, insieme al morto, venivano cremati, con le dovute
esequie, i servi e i clienti che si sapevano da lui prediletti.
[20] Presso i popoli che, secondo l'opinione comune, sono meglio organizzati,
la legge prescrive che se uno sente, dalle genti limitrofe, voci o notizie
riguardanti lo stato, deve informare il magistrato senza farne cenno ad
altri, perché spesso, si sa, gli uomini avventati e inesperti si lasciano
atterrire dalle false notizie, sono spinti a commettere delitti e prendono
decisioni sui problemi più importanti. I magistrati tengono segreto ciò
che sembra loro opportuno e divulgano le altre notizie considerate utili.
Non è permesso trattare questioni di stato se non nelle assemblee.
[21] I Germani hanno consuetudini molto diverse. Infatti, non hanno druidi che
presiedano alle cerimonie religiose, né si occupano di sacrifici.
Considerano dèi solo quelli che vedono e dal cui aiuto traggono giovamento
palese: il Sole, Vulcano, la Luna. Degli altri dèi non hanno neanche
sentito parlare. Passano tutta la vita tra cacce e addestramento alla
guerra: fin dall'infanzia si abituano alla fatica e alla vita dura. Quanto
più a lungo un giovane rimane casto, tanto più riceve le lodi della sua
gente: ritengono che ciò aumenti la statura, accresca la robustezza fisica
e il vigore. E stimano tra le cose più vergognose aver rapporti intimi con
una donna prima dei vent'anni; ma il sesso non viene nascosto, in quanto
maschi e femmine si lavano insieme nei fiumi, indossano pelli o giubbotti
di pelliccia che lasciano scoperta gran parte del corpo.
[22] Non praticano l'agricoltura, il loro vitto consiste, per la maggior parte,
di latte, formaggio e carne. Nessuno ha in proprio un terreno fisso o un
possesso personale. Anzi, alle genti e ai nuclei familiari in cui i
parenti convivono, i magistrati e i capi attribuiscono, di anno in anno,
la quantità di terra e la zona ritenute giuste, ma l'anno successivo li
costringono a spostarsi altrove. Forniscono, in merito, molteplici
spiegazioni. Non vogliono che la gente, vinta da una costante abitudine,
sostituisca la guerra con l'agricoltura, che desideri procurarsi
appezzamenti più estesi e che i più potenti scaccino dai loro campi i meno
forti. Non vogliono che vengano costruite case confortevoli per difendersi
dal freddo e dal caldo, che nasca la brama di denaro, fonte di fazioni e
dissensi, cercano di tenere a bada il popolo con la serenità d'animo,
quando ciascuno si renda conto di possedere quanto i più potenti.
[23] Il vanto maggiore per le loro genti è, devastate le zone di confine, di
avere intorno a sé dei deserti, nel raggio più ampio. Ritengono segno
distintivo del valore se i vicini, scacciati dai loro territori, si
ritirano e nessuno osa stabilirsi nei pressi. Al contempo, si sentono più
al sicuro, eliminato il timore di un'incursione improvvisa. Quando un
popolo entra in guerra, per difendersi o attaccare, vengono scelti dei
magistrati per guidarli, ed essi hanno potere di vita e di morte. In tempo
di pace non ci sono magistrati comuni, ma i capi delle varie regioni e
tribù, al loro interno, amministrano la giustizia e appianano le
controversie. Il ladrocinio non comporta disonore, se commesso fuori dei
territori di ciascun popolo, anzi, lo consigliano per esercitare i giovani
e diminuire l'inerzia. E quando, durante l'assemblea, uno dei capi si
dichiara pronto a guidare una spedizione e chiede ai volontari di farsi
avanti, chi è favorevole all'impresa e all'uomo si alza e promette il
proprio sostegno, tra le lodi generali; chi, invece, non si unisce alla
spedizione, viene considerato nel novero dei disertori e dei traditori, e
in futuro gli viene negata fiducia in ogni campo. Considerano sacrilegio
recare offesa a un ospite: chiunque, per qualsiasi motivo, giunga da loro,
viene protetto da ogni torto e considerato sacro, gli sono aperte le porte
di tutte le case e con lui viene diviso il cibo.
[24] Ci fu, in passato, un tempo in cui i Galli erano più forti dei Germani, li
attaccavano e, avendo una popolazione numerosa e pochi campi, inviavano
colonie oltre il Reno. Perciò, le zone della Germania più fertili attorno
alla selva Ercinia - nota, a quanto vedo, a Eratostene e ad altri Greci,
che però la chiamano Orcinia - le occuparono i Volci Tectosagi,
insediandosi lì. Essi abitano ancor oggi la regione e godono di
straordinaria fama quanto a giustizia e valor militare. Ma mentre i
Germani mantengono sempre le stesse condizioni di povertà, stenti e
sopportazione, senza aver in nulla mutato il nutrimento e il tenore di
vita, i Galli, invece, dalla vicinanza con le nostre province e dal
commercio marittimo hanno tratto molte ricchezze e vantaggi. Così, si sono
gradualmente abituati alla sconfitta e, vinti in molte battaglie, non
osano più neppure paragonarsi ai Germani per valore.
[25] La selva Ercinia, sopra menzionata, si estende per una larghezza
equivalente a nove giorni di marcia per chi viaggi libero da impedimenti:
non è possibile, infatti, determinare in altro modo le sue dimensioni,
perché i Germani non conoscono le misure itinerarie. Ha inizio nei
territori degli Elvezi, dei Nemeti e dei Rauraci e, in parallelo con il
corso del Danubio, raggiunge il paese dei Daci e degli Anarti; da qui,
piega a sinistra, in regioni lontane dal fiume e, nella sua vastità, tocca
le terre di molti popoli. Non c'è nessuno, in questa zona della Germania,
che possa affermare di aver raggiunto l'inizio della selva, benché si sia
spinto in avanti per sessanta giorni di cammino, o che abbia sentito dire
dove ha principio. Vi nascono, a quanto consta, molte specie di animali
mai visti altrove: di essi descriveremo i più strani e singolari e più
degni, a nostro parere, di menzione.
[26] C'è un bue, dalla forma di cervo, che in mezzo alla fronte, tra le
orecchie, ha un corno unico, più alto e più dritto di quelli a noi noti:
sulla sommità, il corno si divide in ampie diramazioni. Uguale è l'aspetto
della femmina e del maschio, con corna di identica forma e grandezza.
[27] Ci sono, altresì, le cosiddette alci. Per forma e varietà delle pelli
assomigliano alle capre, ma sono un po' più grosse, hanno le corna senza
punta e le zampe senza giunture, per cui né si sdraiano per riposarsi, né,
se per qualche motivo cadono a terra, sono in grado di rialzarsi o
risollevarsi. Come giacigli usano gli alberi: vi si appoggiano e così,
leggermente reclinate, si addormentano. Quando i cacciatori, dalle orme,
scoprono il rifugio delle alci, scalzano o tagliano alla base tutti gli
alberi del luogo, stando attenti che rimanga nell'insieme l'aspetto di
alberi ritti. Quando le alci, come al solito, vi si appoggiano, con il
loro peso provocano il crollo degli alberi, già malfermi, e cadono
anch'esse per terra.
[28] La terza è la specie dei cosiddetti uri. Sono leggermente più piccoli
degli elefanti, assomigliano ai tori per aspetto, colore e forma. Sono
molto forti, estremamente veloci, non risparmiano né uomini, né animali
che abbiano scorto. I Germani si danno molto da fare per catturarli per
mezzo di fosse, e poi li uccidono: i giovani si temprano e si esercitano
in queste fatiche e genere di cacce. Chi ha ucciso diversi uri, ne espone
le corna pubblicamente, a testimonianza della sua impresa, ricevendo
grandi elogi. Non si riesce ad abituare gli uri alla presenza degli
uomini, né ad addomesticarli, neppure se catturati da piccoli. Le corna,
per ampiezza, forma e aspetto, sono molto diverse da quelle dei nostri
buoi. Sono un pezzo molto ricercato, le guarniscono d'argento negli orli e
le usano come coppe nei banchetti più sontuosi.
[29] Cesare, quando dagli esploratori degli Ubi apprende che gli Svevi si erano
rifugiati nelle selve, decide di non avanzare ulteriormente, temendo che
gli venisse a mancare il grano, visto che tutti i Germani, come abbiamo
ricordato prima, non praticano affatto l'agricoltura. Ma per tener desto
nei barbari il timore di un suo possibile ritorno e per rallentare la
marcia dei loro rinforzi, ritira l'esercito e, per duecento piedi di
lunghezza, distrugge la testa del ponte sulla sponda degli Ubi.
All'estremità del ponte, costruisce una torre di quattro piani, lasciando
a difesa del medesimo una guarnigione di dodici coorti e munendo il luogo
con salde fortificazioni. Assegna il comando della zona e della
guarnigione al giovane C. Volcacio Tullo. Cesare, invece, non appena il
grano cominciava a maturare, partì per muovere guerra ad Ambiorige,
attraverso la selva delle Ardenne, la più estesa di tutta la Gallia: dalle
rive del Reno e dalle terre dei Treveri giunge fino alla regione dei
Nervi, per oltre cinquecento miglia di lunghezza. Manda in avanscoperta L.
Minucio Basilo alla testa di tutta la cavalleria, perché traesse vantaggio
dalla rapidità della marcia e dalle occasioni favorevoli. Lo ammonisce a
vietare i fuochi nell'accampamento, perché da lontano non si scorgessero
indizi del suo arrivo, e gli garantisce che si sarebbe spinto subito
dietro di lui.
[30] Basilo si attiene agli ordini. Coperta la distanza rapidamente e mentre
nessuno se lo aspettava, coglie di sorpresa molti nemici ancora nei campi.
Grazie alle loro indicazioni, punta su Ambiorige stesso, dirigendosi nel
luogo in cui si trovava - così dicevano - con pochi cavalieri. La Fortuna
ha un gran peso in tutto, specie nelle operazioni militari. Infatti, se
per un caso davvero propizio Basilo poté piombare su Ambiorige stesso
cogliendolo alla sprovvista e impreparato (videro di persona l'arrivo del
Romano prima che ne giungesse voce o notizia), d'altro canto fu una vera
combinazione se il Gallo riuscì a sottrarsi alla morte, pur perdendo tutto
il suo equipaggiamento militare, i carri e i cavalli. Ed ecco come andò:
la sua casa era circondata da un bosco, come spesso le abitazioni dei
Galli, che, per evitare il caldo, in genere cercano luoghi vicini a fiumi
o selve. Così, i suoi compagni e servi, in una stretta zona d'accesso,
ressero per un po' al nostro assalto. Mentre essi combattevano, uno dei
suoi lo fece salire a cavallo: le selve ne protessero la fuga. Così, la
Fortuna ebbe un ruolo determinante prima nel metterlo in pericolo, poi nel
salvarlo.
[31] Non è chiaro se Ambiorige non avesse raccolto le sue truppe di proposito,
non ritenendo opportuno uno scontro aperto, oppure se gli fosse mancato il
tempo e glielo avesse impedito l'arrivo improvviso della cavalleria, che
credeva seguita dal resto dell'esercito. L'unica cosa certa è che inviò
messi nelle campagne con l'ordine di pensare ciascuno per sé. Alcuni dei
suoi si rifugiarono nella selva delle Ardenne, altri nelle paludi
interminabili. Chi viveva nei pressi dell'Oceano riparò nelle isole che le
maree sono solite formare. Molti, poi, abbandonati i propri territori,
affidarono se stessi, con ogni avere, a genti del tutto estranee.
Catuvolco, re di una metà degli Eburoni, che aveva assunto l'iniziativa
insieme ad Ambiorige, era ormai sfinito dagli anni e non poteva reggere le
fatiche di una guerra o di una fuga. Perciò, dopo aver maledetto con ogni
sorta d'imprecazioni Ambiorige, l'ideatore del piano, si tolse la vita con
il tasso, una pianta molto diffusa in Gallia e in Germania.
[32] I Segni e i Condrusi, popoli di stirpe germanica e tali ritenuti, che
abitano tra gli Eburoni e i Treveri, mandarono a Cesare un'ambasceria per
pregarlo di non considerarli nemici e di non credere che tutti i Germani
stanziati al di qua del Reno avessero fatto causa comune: essi non avevano
pensato alla guerra, né inviato ad Ambiorige rinforzi. Cesare, accertato
come stavano le cose interrogando i prigionieri, comandò ai Segni e ai
Condrusi di ricondurgli eventuali fuggiaschi degli Eburoni giunti nelle
loro terre; se avessero eseguito l'ordine, non avrebbe violato i loro
territori. Quindi, divise in tre corpi le sue truppe e ammassò le salmerie
di tutte le legioni ad Atuatuca. È il nome di una fortezza che si trova
circa al centro dei territori degli Eburoni, dove Titurio e Aurunculeio
avevano posto i quartieri d'inverno. Tra gli altri motivi, Cesare
approvava la scelta del luogo soprattutto perché erano ancora intatte le
fortificazioni dell'anno precedente, così avrebbe risparmiato fatica ai
soldati. A presidio delle salmerie lasciò la quattordicesima legione, una
delle tre che, arruolate di recente, aveva condotto dall'Italia. Affidò il
comando della legione e del campo a Q. Tullio Cicerone, assegnandogli
duecento cavalieri.
[33] Suddiviso l'esercito, ordina a T. Labieno di partire con tre legioni verso
l'Oceano, puntando sulle terre al confine con i Menapi. Alla testa di
altrettante legioni invia C. Trebonio a devastare i territori contigui
agli Atuatuci. E lui stesso decide di muoversi, con le tre restanti
legioni, in direzione della Schelda, un fiume che si getta nella Mosa, e
verso le parti più lontane delle Ardenne, dove, stando alle voci, era
riparato Ambiorige con pochi cavalieri. Al momento della partenza,
assicura che sarebbe rientrato di lì a sette giorni, data stabilita per
distribuire il grano alla legione di presidio in Atuatuca. Invita Labieno
e Trebonio, se ciò non nuoceva agli interessi di stato, a rientrare lo
stesso giorno: tenuto ancora consiglio e analizzate le intenzioni del
nemico, avrebbero potuto riprendere, su nuove basi, le ostilità.
[34] I nemici, come abbiamo detto in precedenza, non avevano un esercito
regolare, una fortezza, un presidio che si difendesse con le armi: erano
una massa di uomini sparsi ovunque. Ciascuno si era appostato dove una
valle nascosta, una zona boscosa, una palude impraticabile offriva una
qualche speranza di difesa o di salvezza. Erano luoghi ben noti agli
abitanti della zona, e la situazione richiedeva la massima prudenza, non
tanto per proteggere il grosso dell'esercito (nessun pericolo, infatti,
poteva nascere, per le nostre truppe riunite, da nemici atterriti e
sparpagliati), quanto per tutelare i singoli legionari, cosa che comunque,
in parte, riguardava la sicurezza di tutto l'esercito. Infatti, l'avidità
di bottino spingeva molti ad allontanarsi troppo, e le selve, dai sentieri
malsicuri e poco visibili, impedivano ai nostri la marcia in gruppo. Se si
voleva portare a termine l'operazione e annientare quella stirpe di
canaglie, era necessario distaccare diversi gruppi in varie direzioni e
dividere i soldati; se, invece, si sceglieva di tenere i manipoli sotto le
insegne, come richiesto dalla regola e dall'uso dell'esercito romano, la
zona stessa avrebbe protetto i barbari, ai quali non mancava l'audacia,
per quanto isolati, di tendere imboscate e di circondare i nostri che si
fossero disuniti. Così, di fronte a tali difficoltà, si provvide con tutta
l'attenzione possibile: si rinunciò perfino a qualche occasione di nuocere
al nemico, sebbene tutti bruciassero dal desiderio di vendetta, piuttosto
che farlo a prezzo di nostre perdite. Cesare invia messi ai popoli
confinanti, li fa venire presso di sé e li spinge, con la speranza di
bottino, a saccheggiare le terre degli Eburoni: voleva che fossero i
Galli, non i legionari, a rischiare la vita nelle selve e che, al tempo
stesso, in seguito all'affluire di una simile massa, venissero annientati,
come prezzo per la loro colpa, gli Eburoni, nome e stirpe. Da ogni regione
accorre ben presto una gran folla.
[35] Ecco cosa succedeva in ogni parte del territorio degli Eburoni, e intanto
si avvicinava il settimo giorno, fissato da Cesare per il suo ritorno alle
salmerie e alla legione di presidio. In questa circostanza si poté
constatare il peso della Fortuna in guerra e quali inattesi eventi essa
produca. I nemici erano dispersi e atterriti, lo abbiamo visto; non vi
erano truppe in grado di dare il benché minimo motivo di preoccupazione.
Ai Germani, al di là del Reno, giunge voce che le terre degli Eburoni
venivano saccheggiate e che, anzi, tutti erano chiamati a far bottino. I
Sigambri, popolo vicino al Reno, che avevano accolto - lo abbiamo riferito
in precedenza - i Tenteri e gli Usipeti in fuga, radunano duemila
cavalieri. Passano il Reno su imbarcazioni e zattere, trenta miglia più a
sud del punto in cui era stato costruito il ponte e dove Cesare aveva
lasciato il presidio. Varcano la frontiera degli Eburoni, raccolgono molti
sbandati, si impossessano di una gran quantità di capi di bestiame, preda
ambitissima dai barbari. Attratti dal bottino, avanzano. Né la palude, né
le selve frenano questi uomini nati tra guerre e saccheggi. Ai prigionieri
chiedono dove sia Cesare; scoprono, così, che si è molto allontanato e che
tutto l'esercito è partito. Allora uno dei prigionieri "Ma perché - dice -
vi accanite dietro a questa preda misera e meschina, quando potreste
essere già ricchissimi? Atuatuca è raggiungibile in tre ore di marcia: lì
l'esercito romano ha ammassato tutti i propri averi. I difensori non
bastano neppure a coprire il muro di cinta e nessuno osa uscire dalle
fortificazioni". Di fronte a una tale occasione, i Germani nascondono la
preda già conquistata e puntano su Atuatuca, sotto la guida dell'uomo che
li aveva informati.
[36] Cicerone, in tutti i giorni precedenti, secondo le disposizioni di Cesare,
aveva trattenuto con molto scrupolo i soldati nell'accampamento, senza
permettere che neppure un calone uscisse dalle fortificazioni. Ma il
settimo giorno, non avendo fiducia che Cesare sarebbe stato puntuale come
aveva promesso (giungevano, infatti, voci che si era spinto ancor più
lontano e non si avevano notizie sul suo ritorno) e turbato, al tempo
stesso, dalle critiche di chi definiva la sua pazienza una sorta di
assedio, in quanto a nessuno era concesso di uscire dal campo, stima che,
nel raggio di tre miglia, i suoi non avrebbero corso alcun pericolo: il
nemico, già sbandato e pressoché distrutto, aveva di fronte nove legioni e
una fortissima cavalleria. Così, invia cinque coorti a far provvista di
grano nei campi più vicini, che un unico colle separava dall'accampamento.
Con Cicerone erano rimasti, dalle varie legioni, parecchi malati; i
soldati guariti in quell'arco di tempo, circa trecento, formano un
distaccamento e vengono mandati con gli altri. E, poi, ottenuto il
permesso, li seguono anche molti caloni con un gran numero di bestie da
soma, che erano rimaste al campo.
[37] Proprio in questo momento e frangente sopraggiungono i cavalieri germani,
che, proseguendo senza rallentare l'andatura, tentano un'irruzione dalla
porta decumana. Essendo coperti, su quel lato, dalle selve, vengono scorti
solo quando erano ormai nei pressi del campo, al punto che i mercanti,
attendati ai piedi del vallo, non hanno neppure modo di rifugiarsi
all'interno. I nostri, colti alla sprovvista, rimangono scossi dall'evento
inatteso, e la coorte di guardia riesce a respingere a malapena il primo
assalto. I Germani si spargono tutt'intorno, nella speranza di trovare un
adito. I nostri difendono a stento le porte, per il resto l'accesso era
impedito solo dalla posizione naturale e dalle fortificazioni. In tutto il
campo regna la confusione, ci si domanda l'un l'altro la causa del
tumulto: non si pensa a disporre le insegne, né a indicare dove ciascuno
debba radunarsi. Chi sostiene che il campo è già caduto, chi afferma che i
barbari sono giunti vittoriosi, dopo aver annientato il nostro esercito e
ucciso il comandante. La maggior parte si inventa nuove superstizioni
sulla base del luogo, rievocando il massacro di Cotta e Titurio, avvenuto
proprio lì. Poiché tutti erano terrorizzati da tali paure, i barbari si
rafforzano nell'idea che, come aveva detto il prigioniero, all'interno non
c'era alcuna guarnigione. Cercano di sfondare e si spronano a vicenda a
non lasciarsi sfuggire dalle mani un'occasione così splendida.
[38] Al campo, con la legione di presidio, era rimasto, malato, P. Sestio
Baculo, che sotto Cesare aveva rivestito la carica di centurione primipilo
e di cui abbiamo parlato nelle battaglie precedenti: già da cinque giorni
non toccava cibo. Disperando della salvezza sua e di tutti, esce disarmato
dalla tenda. Vede che i nemici incombevano e che il momento era molto
critico: si fa consegnare le armi dai soldati più vicini e si piazza sulla
porta. A lui si uniscono i centurioni della coorte di guardia; per un po'
reggono agli assalti, insieme. Poi Sestio, gravemente ferito, sviene: lo
traggono in salvo a stento, passandolo di braccia in braccia. Ma nel
frattempo gli altri si rinfrancano, tanto che osano attestarsi sui
baluardi e danno l'impressione di una vera guarnigione.
[39] In quel mentre, i nostri, terminata la raccolta di grano, odono i clamori:
i cavalieri accorrono, si rendono conto della gravità della situazione. Ma
qui non c'era nessun riparo che potesse accogliere gente in preda al
panico: soldati appena arruolati e privi di esperienza militare, rivolgono
gli occhi al tribuno e ai centurioni, aspettano i loro ordini. Ma anche i
migliori erano sconvolti dagli eventi inattesi. I barbari, scorgendo in
lontananza le insegne, cessano l'assedio: dapprima pensano al rientro
delle legioni che, su informazione dei prigionieri, sapevano lontane; poi,
disprezzando lo scarso numero dei nostri, li attaccano da ogni lato.
[40] I caloni corrono sul rialzo più vicino. Ben presto scacciati, si
precipitano tra le insegne e i manipoli, seminando ancor più scompiglio
tra i legionari impauriti. Dei nostri c'era chi consigliava di formare un
cuneo per aprirsi rapidamente un varco, data la vicinanza del campo: anche
se qualcuno, accerchiato, soccombeva, certo gli altri sarebbero riusciti a
mettersi in salvo. E chi, invece, era dell'avviso di attestarsi sul colle
e di affrontare tutti lo stesso destino. I veterani - abbiamo detto che si
erano aggregati come distaccamento - non approvano quest'ultima soluzione.
Così, si incoraggiano a vicenda e, sotto la guida di C. Trebonio,
cavaliere romano, loro comandante, forzano al centro la linea nemica e,
sani e salvi dal primo all'ultimo, raggiungono tutti l'accampamento. Alle
loro spalle si lanciano nello stesso attacco i caloni e i cavalieri e
vengono salvati dal valore dei veterani. Gli altri, invece, rimasti in
cima al colle, soldati ancora privi di qualsiasi esperienza militare, non
seppero attenersi alla decisione da loro stessi approvata, cioè di
difendersi dall'alto del colle, né imitare la forza e la rapidità che
avevano visto procurare ai loro compagni la salvezza, ma, nel tentativo di
ripiegare verso il campo, scesero su un terreno sfavorevole. I centurioni,
alcuni dei quali, per il loro valore, erano stati promossi dagli ordini
inferiori delle altre legioni agli ordini superiori di questa, caddero sul
campo, combattendo con straordinario coraggio, per non perdere l'onore
delle armi che si erano prima conquistati. Parte dei soldati, mentre i
nemici venivano respinti dal valore dei centurioni, contro ogni speranza
raggiunse salva l'accampamento, parte fu circondata dai barbari e uccisa.
[41] I Germani, persa la speranza di espugnare il campo, poiché vedevano i
nostri ormai ben saldi sui baluardi, si ritirarono oltre il Reno con il
bottino che avevano nascosto nelle selve. E anche dopo la partenza dei
nemici, i nostri rimasero così atterriti, che C. Voluseno, quando giunse,
quella notte stessa, al campo con la cavalleria, non riuscì a far credere
che Cesare stesse arrivando con l'esercito indenne. Il panico si era
impadronito degli animi di tutti al punto che erano quasi usciti di senno:
dicevano che l'esercito era stato annientato e che la cavalleria era
riuscita a salvarsi fuggendo, sostenevano che, se l'esercito non fosse
stato distrutto, i Germani non avrebbero attaccato il nostro campo.
L'arrivo di Cesare dissolse ogni paura.
[42] Appena rientrato, Cesare, ben sapendo come vanno le cose in guerra, si
lamentò solo di un fatto, che le coorti fossero state spedite fuori dalla
guarnigione e dal presidio: non bisognava lasciare al caso il benché
minimo spazio. Giudicò determinante il ruolo della Fortuna nel repentino
attacco nemico, ma ancor più nel respingere i barbari quasi dal vallo e
dalle porte dell'accampamento. Tra tutte le circostanze, però, la più
singolare gli parve che i Germani, varcato il Reno con l'intenzione di
saccheggiare i territori di Ambiorige, si fossero, poi, volti contro
l'accampamento dei Romani, rendendo ad Ambiorige stesso il beneficio più
desiderato.
[43] Cesare ripartì con lo scopo di devastare i territori nemici e, radunati
forti contingenti di cavalleria dai popoli limitrofi, li invia in ogni
direzione. Tutti i villaggi, tutti gli edifici isolati, appena scorti,
erano dati alle fiamme, gli animali venivano sgozzati, si faceva razzia
ovunque, il grano non lo consumavano solo i moltissimi giumenti e soldati,
ma cadeva anche nei campi per la stagione avanzata e le piogge. Così, se
anche qualcuno, al momento, era riuscito a nascondersi, sembrava tuttavia
destinato, dopo la partenza dell'esercito romano, a morte sicura, per
totale mancanza di sostentamento. E, suddivisa e inviata la cavalleria in
tutte le direzioni, più d'una volta si giunse al punto che i prigionieri
cercassero con gli occhi Ambiorige, che avevano appena scorto in fuga, e
sostenessero che non poteva essere già fuori di vista. I cavalieri
speravano di catturarlo e si impegnavano senza respiro, ritenendo di poter
entrare nelle grazie di Cesare, e con il loro zelo piegavano, per così
dire, la natura, ma, a quanto pareva, si trovavano sempre a un passo dal
successo. Ambiorige si sottraeva alla caccia rifugiandosi in anfratti o
boscaglie, con il favore delle tenebre si spostava in altre regioni e
zone, senz'altra scorta che quattro cavalieri, i soli a cui osasse
affidare la propria vita.
[44] Devastate in tal modo le regioni, Cesare conduce l'esercito, che aveva
subito la perdita di due coorti, a Durocortoro, città dei Remi. Qui
convoca l'assemblea della Gallia e decide di aprire un'inchiesta sulla
cospirazione dei Senoni e dei Carnuti. Accone, responsabile del piano di
sollevazione, fu condannato alla pena capitale e giustiziato secondo
l'antico costume dei nostri padri. Alcuni, temendo il processo, fuggirono.
Cesare li condannò all'esilio. Sistemò nei quartieri invernali due legioni
presso i Treveri, due nelle terre dei Lingoni, le altre sei nella regione
dei Senoni, ad Agedinco. Dopo aver provveduto alle scorte di grano per
l'esercito, partì alla volta dell'Italia, come suo solito, per tenervi le
sessioni giudiziarie.